Paolo, qual è la tua prospettiva sulla gig economy?
La gig economy, a mio avviso, è allo stesso tempo una rivoluzione e una resa dei conti. Rappresenta un cambiamento radicale nel modo in cui pensiamo al lavoro, alla libertà e a cosa significa “guadagnarsi da vivere,” ma mette anche in evidenza alcune profonde falle nelle nostre strutture sociali che non abbiamo ancora affrontato completamente.
Comincio con ciò che mi entusiasma della gig economy. Questo è un sistema che, nella sua forma più pura, dà potere agli individui. Offre una libertà come non l’abbiamo mai vista prima. Le persone possono ora creare i propri orari, scegliere i progetti che le appassionano e vivere la vita secondo i loro termini. Per i freelancer, i nomadi digitali e i creativi, è un’opportunità per sfuggire al grigiore corporativo tradizionale e prendere il controllo del proprio lavoro e del proprio tempo. Quell’autonomia? È oro. È la promessa di poter disegnare la propria vita senza restare incastrati nel modello del 9-17, senza dover scalare la scala di qualcun altro o inseguire la versione di successo di qualcun altro.
La tecnologia ha reso tutto questo possibile. Con piattaforme come Upwork, Fiverr e persino i social media, le persone possono connettersi con clienti di tutto il mondo. Non devi più aspettare che appaia il “lavoro giusto”; puoi creare le tue opportunità, sfruttare le tue competenze e costruire il tuo brand. I guardiani dell'economia tradizionale—i dipartimenti HR, i manager intermedi, i reclutatori aziendali—hanno perso gran parte del loro potere. E questo è entusiasmante.
Ma qui arriva la mia visione più critica: la gig economy, così com’è ora, è incompleta. È costruita sull’idea di libertà, ma in realtà, molta di quella libertà è fragile. I lavoratori gig sono spesso lasciati scoperti, senza le reti di sicurezza che i lavori tradizionali offrono. Niente assicurazione sanitaria, niente pensione, niente ferie pagate. Il sistema offre autonomia, ma lascia anche le persone vulnerabili alle fluttuazioni del mercato, a politiche di piattaforme ingiuste e alla costante corsa per arrivare a fine mese. È un’economia che chiede molto ai lavoratori, ma non sempre restituisce.
Il problema più profondo? La gig economy spesso mercifica il lavoro. I lavoratori sono trattati come prodotti da comprare e vendere al prezzo più basso, specialmente nei marketplace digitali dove la competizione è globale. Questo abbassa i salari, trasforma le persone in risorse usa e getta e perpetua una corsa al ribasso in termini di guadagni. È ironico, no? Questo sistema, che promette indipendenza, spesso intrappola le persone in cicli di instabilità dove inseguono costantemente il prossimo lavoro, senza alcuna sicurezza a lungo termine. È libertà, ma è una libertà precaria.
E parliamo un attimo di sfruttamento. Molte aziende hanno abbracciato la gig economy, ma non per dare potere ai lavoratori—piuttosto per evitare di pagare benefici, eludere le leggi sul lavoro, esternalizzare i rischi. Ottengono i benefici di una forza lavoro flessibile ed economica senza nessuna delle responsabilità che comporta essere un datore di lavoro. È una scappatoia nel sistema che permette alle corporazioni di estrarre valore dalle persone senza investire in loro come esseri umani. Questo è un problema. Se non affrontiamo questa situazione, la gig economy rischia di diventare un sistema a due livelli, dove una piccola percentuale di lavoratori prospera mentre la maggioranza si arrabatta per le briciole.
Allora, qual è la mia visione per la gig economy? Credo nel ridefinirne le fondamenta. Il potenziale è enorme—questo potrebbe essere il futuro del lavoro, ma dobbiamo ricostruirlo su principi che valorizzino le persone, non solo i profitti. La gig economy ha bisogno di strutture di supporto, non solo di piattaforme di scambio. Freelancer e lavoratori gig dovrebbero avere accesso a cure sanitarie, piani pensionistici, salari equi e protezioni contro lo sfruttamento. Deve esserci un equilibrio tra flessibilità e sicurezza.
Dobbiamo anche cambiare la narrativa intorno al lavoro gig. Non è solo una soluzione temporanea o un piano B per chi non riesce a trovare “lavori veri.” I lavoratori gig sono imprenditori, creatori e innovatori. Meritano rispetto, una giusta retribuzione e opportunità di crescita. La gig economy dovrebbe essere un luogo in cui le persone non solo sopravvivono, ma prosperano.
La mia visione? Una gig economy che unisca il meglio di entrambi i mondi: autonomia e protezione. Un sistema in cui le persone abbiano la libertà di scegliere come e quando lavorare, ma non siano costrette a cavarsela da sole in un mercato iper-competitivo e instabile. Si tratta di creare piattaforme che non solo connettano lavoratori con clienti, ma che investano anche nel loro sviluppo, forniscano risorse per la stabilità e assicurino che i lavoratori gig non siano sfruttati o svalutati.
Non ci siamo ancora. Ma potremmo arrivarci. La gig economy è ancora nella sua infanzia e abbiamo l’opportunità di plasmarla in qualcosa che veramente dia potere alle persone—non solo in teoria, ma in pratica. Questo è il futuro per cui sto facendo pressione. Una gig economy dove la libertà non viene a scapito della dignità e dove l’innovazione va di pari passo con l’umanità.